Un ex capitano che parla ai ragazzi, una palla che rimbalza tra playground e campi sterrati: la partita del futuro del calcio italiano si gioca qui, dove scegliere uno sport è anche scegliere un modo di crescere.
La scena è semplice: pomeriggio feriale, oratorio semivuoto, la palestra comunale piena. I giovani oggi trovano stimoli ovunque. Il basket offre community, il volley una socialità inclusiva, il padel promette divertimento immediato. Non è un “tradimento” al calcio italiano. È normalità. E se altri sport intercettano ragazzi e ragazze prima di noi, il messaggio è chiaro: dobbiamo essere più bravi.

Dati alla mano, il movimento resta enorme. Secondo il ReportCalcio della FIGC (ed. 2023), i tesserati superano il milione. Numeri solidi, ma non rassicuranti: l’ISTAT segnala che l’abbandono della pratica sportiva cresce nell’adolescenza, specie tra i 14 e i 16 anni. Non abbiamo cifre definitive per ogni provincia o categoria giovanile: su alcuni segmenti il dato pubblico è incompleto, e va detto apertamente. Ma la tendenza è visibile nei club di base: meno continuità, più “prove” di discipline diverse.
A metà di questa storia entra la voce di Gianluigi Buffon
Il punto, sottolinea, non è trattenere i ragazzi a tutti i costi. È non soffocare i talenti. La differenza è enorme. Trattenere significa chiudere porte. Non soffocare significa aprirle: far respirare creatività, gioco, coraggio dell’errore.

Cosa vuol dire, sul campo? Vuol dire ripensare il settore giovanile. Meno lavagne, più pallone. Allenamenti che insegnano decisioni, non solo schemi. Under 12 e Under 13 che sperimentano posizioni diverse, non ruoli scolpiti. Periodi di multi-sport coordinati con la scuola, perché la varietà motoria costruisce atleti migliori e persone più curiose. In Spagna e nei Paesi Bassi lo fanno da anni; in Italia ci sono esempi virtuosi: l’Atalanta è un benchmark nella formazione, l’Empoli ha una filiera che valorizza tecnica e autonomia. Non è marketing, sono processi.
Poi ci sono le barriere economiche
Quote e trasferte pesano. Soluzioni pratiche? Borse sociali comunali, fondi di solidarietà interni ai club, partnership con aziende locali che finanziino i vivai. Alcune società hanno già introdotto kit “riuso” e rateazioni trasparenti: piccoli gesti che tengono dentro chi rischia di uscire.
Un altro nodo è l’over-coaching
Parliamo di allenatori che, spesso per pressione, guidano ogni tocco. Ma un dribbling non provato a 10 anni è un dribbling perduto a 20. L’UEFA Grassroots spinge da tempo su gioco libero e feedback semplici. Qui possiamo accelerare: 15 minuti di “free play” in ogni seduta, micro-obiettivi chiari, video brevi per mostrare scelte, non errori.
La competizione con altri sport deve stimolarci anche su ambienti e orari. Sessioni after-school in palestre scolastiche, campetti di quartiere riaperti con luci e custodi, tornei misti con regole leggere. Quando il contesto è accogliente, la fedeltà segue da sé.
Buffon ricorda l’essenziale: non spegnere l’istinto. Non tutto è misurabile, ma qualcosa sì. Tenere traccia del drop-out, formare tecnici, abbassare i costi, progettare percorsi elastici. È un lavoro paziente, però contagioso.
Cosa fare, davvero
Allenare la creatività: 1v1 e 3v3 obbligatori nelle under. Integrare scuola e club: accordi per spazi e tutor di studio. Accesso equo: fondi locali, quote progressive, kit condivisi. Community: eventi brevi, musica, squadre miste, arbitri-educatori.
Alla fine, il talento non chiede applausi. Chiede ossigeno. Siamo pronti a darglielo, anche se significa accettare che per un po’ giochi a volley il martedì e a calcio il giovedì? Forse la vera vittoria è vederlo tornare al campo con gli occhi che brillano. E da lì, ricominciare.





