Voci che si incrociano nell’aula della Fiera di Genova: il passato del ponte, le carte sul tavolo, la difesa che chiede di guardare meglio dove stanno i confini delle responsabilità. Una storia di procedure, persone e scelte che oggi tornano al centro.
Il crollo del Ponte Morandi del 14 agosto 2018 ha lasciato 43 vittime e una ferita ancora aperta. Da allora la parola chiave è “responsabilità”. Il processo in corso, celebrato nella grande aula della Fiera, cerca di fissare i confini tra omissioni, ruoli tecnici e doveri di vigilanza. Non è semplice. Le carte sono molte. Gli attori, altrettanti.

Il quadro oggettivo è noto e documentato. La Commissione ispettiva del Ministero delle Infrastrutture, nel rapporto pubblicato a fine 2018, parlò di “gravi carenze manutentive” e di controlli “insufficienti” sulla struttura. Le consulenze depositate in atti hanno descritto un degrado diffuso degli stralli e dei sistemi di ancoraggio. Fonti come ANSA, Il Secolo XIX e i verbali d’udienza richiamano cronologie, perizie, pareri. Tutto pubblico, consultabile. Non c’è però ancora una sentenza definitiva. E questo è un punto fermo.
Tutte le ultime novità per quanto riguarda il crollo del ponte Morandi: ecco cosa c’è da sapere
Nel dibattito odierno entra la voce dell’ex provveditore alle opere pubbliche. La sua linea è netta: “Non tutti sono da incolpare”. Una frase che non è uno slogan, ma una strategia processuale. Sostiene che le competenze del Provveditorato – e del suo organo interno, il Comitato Tecnico Amministrativo (Cta) – non si sovrappongono ai doveri del concessionario. Tradotto: il controllo pubblico esiste, ma non rimpiazza la manutenzione dovuta da chi gestisce l’infrastruttura.

Qui entra in campo l’avvocato Viglione. Il legale, riprendendo gli atti, insiste su un punto tecnico ma cruciale: le “carte in mano al Cta sono state usate in modo corretto”. Parliamo di pareri, verbali, note protocollate, richieste di chiarimenti. Documenti amministrativi, non perizie strutturali. Esempi concreti? I pareri su varianti e interventi localizzati, i richiami a monitoraggi programmati, le trasmissioni di report ricevuti dal concessionario. Sono passaggi che, se confermati punto per punto dagli atti, mostrerebbero una filiera formale rispettata.
Che cosa fa davvero il Cta
Un dettaglio spesso frainteso: il Cta non è un ufficio ispettivo “sul campo”. È un organo collegiale che esprime pareri tecnico-amministrativi su progetti e spese. Non decide i piani di manutenzione ordinaria del concessionario, non entra nel merito delle metodologie d’ispezione. Se il dossier che arriva al tavolo è incompleto, il Cta può chiedere integrazioni. Se è formalmente a posto, rilascia un parere. È un meccanismo di garanzia, ma non è un laboratorio prove.
Il processo dirà se quella catena di atti ha funzionato come doveva. E se il confine tra “parere” e “controllo sostanziale” è stato rispettato. La difesa dell’ex provveditore punta su questo crinale. “Le responsabilità vanno distinte”, ripete. Una tesi che non cancella il dolore, né le omissioni di altri soggetti qualora accertate; chiede però di non trasformare ogni firma amministrativa in un giudizio tecnico sulla sicurezza.
Dati certi? Le vittime sono 43. Le perizie parlano di degrado avanzato già da anni. Il processo è in corso e non ci sono ancora decisioni di merito definitive. Altre informazioni – come le mail operative tra uffici o le valutazioni interne – sono agli atti, ma spesso coperte da riservatezza fino alla discussione in aula. Dove mancano conferme, conviene fermarsi: speculare non aiuta.
Resta una domanda. In una infrastruttura vitale, quante volte possiamo affidarci a un timbro e quante a un bullone controllato davvero, lì, a pochi centimetri dal calcestruzzo? Forse la lezione del ponte non è solo cercare colpe, ma imparare a prevenire. Con documenti chiari, controlli veri, e una responsabilità che non si perda in corridoi lunghi come viadotti.





